L’utero in affitto non è un atto d’amore, come purtroppo spesso si vuole sostenere, ma un atto egoistico e violento in cui si strappa un bimbo dalla madre.
Lo testimonia un interessante documentario, andato in onda a fine luglio su Current Time dopo lo scandalo della clinica di Kiev . Le foto con cento bimbi piangenti abbandonati nella clinica, pronti ad essere acquistati dal miglior offerente ma rimasti fermi a causa del lockdown, ovviamente hanno creato grande scalpore e indignazione.
Lo scandalo dell’utero in affitto anche in Europa
Quei bimbi “invenduti” ci parlano di una totale degenerazione morale che non avviene altrove, ma in casa nostra, nella vecchia Europa, in Ucraina. Uno scandalo per il quale è necessario che i cristiani e tutti gli uomini di buon senso facciano sentire la propria voce.
Nel documentario, ripreso in Italia da La Nuova Bussola Quotidiana, si parla di una vera e propria tratta legalizzata di esseri umani. “Questa è una schiavitù legale, è una compravendita di bambini”, ha affermato il commissario ucraino dei diritti dei bambini, Mycola Kuleba.
La storia di Brigit mostra tutto l’egoismo dell’utero in affitto
In sostanza, dalla retorica dei diritti, dell’amore universale per tutti, del politicamente corretto che sfocia in un “buonismo” opportunista che per tutelare i propri interessi evita di guardare in faccia la realtà, tuttavia non cedendo mai la propria presunta superiorità morale, a costo di distorcere gravemente la realtà, si è passati a una vera tragedia umana sistematizzata.
Nel filmato si riporta la storia di Brigit, bimba nata disabile da mamma surrogata. “I suoi genitori biologici l’hanno abbandonata“, spiega il documentario. La bimba è stata lasciata in ospedale. L’infermiera pediatrica dell’orfanotrofio ucraino in cui ora la bimba risiede ha provato a contattare le persone che hanno chiesto di metterla al mondo e poi l’hanno abbandonata.
La coppia che ha “commissionato” la bimba non ne vuole più sapere
Questi però, da parte loro, hanno risposto con delle minacce. Se continui a chiamare, ti segnaliamo alla polizia, le hanno detto. “Questo è tutto. Non abbiamo più parlato e ho capito che non la vogliono più”, racconta l’infermiera. Però nemmeno la vera madre, che ha portato la bimba in grembo, non vuole sapere nulla di lei. Sono poverissime e una figlia significherebbe la miseria.
Vicende di questo tipo sono all’ordine del giorno in questo genere di realtà, eppure sono pochissime le persone che decidono di approfondire queste vicende. Dalla politica c’è quasi un silenzio assoluto, e nei giornali ancora di più. I genitori acquisiti, a cinque mesi dalla nascita, hanno chiesto che le venissero staccate le cure, perché la bimba non era autosufficiente, e loro speravano che morisse.
Se Brigit non trova una famiglia, rischia la fine delle cure
Ma la piccola Brigit, che dicevano fosse sorda e muta, è riuscita a sopravvivere. Sente, parla, è felice, grazie alla vicinanza e l’amore dell’infermiera che trascorre con lei tutto il suo tempo libero. Nel frattempo, sta provando a cercarle una vera famiglia che sia disposta ad adottarla. Il rischio è che una volta superati i sette anni possa finire in un’istituto in cui non le verranno più somministrate altre cure.
La coppia che ha abbandonato la figlia disabile tuttavia ha stipulato un ulteriore contratto, con una madre surrogata che aveva in grembo due gemelli, continuando cioè a cercare un bimbo “sano”. Il problema dei bimbi disabili nati da fecondazione surrogata non è infatti infrequente, tutt’altro. L’età delle donne che si presta a questo tipo di pratiche è spesso alta, e molti bambini nascono con anomalie genetiche.
Una storia che mostra la disumanità dell’utero in affitto
Tutto questo fa capire l’umanità, o meglio la disumanità, che si cela dietro la realtà dell’utero in affitto. Niente di bello, amorevole, aperto alla vita. Tutt’altro. Casi di questo genere dimostrano come si tratti in realtà di nient’altro che un mercato di infanti, una compravendita di esseri umani instaurata all’unico fine di soddisfare i desideri di coppie che altrimenti non possono avere figli, spesso omosessuali.
Una fabbrica in cui se c’è qualche inconveniente il “prodotto” si getta via. Il problema però è che non si tratta di merce, ma di esseri umani. Bambini mercificati, come se fossero prodotti da richiedere a un’azienda in cambio di denaro. E la legge, una volta che gli acquirenti hanno pagato il prezzo pattuito, non li obbliga a ritirare il “prodotto”. Nessuno insomma si preoccupa dei figli “non voluti”.
Un business attorno a cui circolano molti soldi, ma soprattutto molta omertà, oltre che un rispetto della vita umana del tutto inesistente. Ora però Albert Tochylovsky, della BioTexCom, è finito sotto processo con l’accusa di tratta dei bambini e falsificazione di documenti. La speranza, quindi, è che almeno la giustizia terrena sia fatta.
Giovanni Bernardi