Il segretario generale della Cei, mons. Nunzio Galantino, infatti, se la prende in particolare con il testo (che per il momento è solo una proposta da portare in Parlamento) che in un passaggio parla delle unioni tra persone dello stesso sesso in senso matrimoniale: “Si tratta di lavorare perché questa proposta non vada avanti. Ci sono alcuni particolari che non convincono”. Per il segretario generale dei vescovi “si tratta di non confondere il doveroso rispetto dei diritti con l’appiattimento di realtà che storicamente, culturalmente e antropologicamente sono diverse tra loro”. Il vescovo si appella al Parlamento perché ci sia “la volontà e la capacità di interpellare le famiglie, sentire che cosa pensa la gente, altrimenti si va avanti soltanto a lobby”. “Ci sarà un momento in cui le famiglie con un padre, una madre e dei figli dovranno chiedere scusa di esistere”, ha concluso Galantino usando un paradosso.
“Il Pd va avanti: la legge sulle unioni civili è un impegno preso con i nostri elettori ed è un riconoscimento di diritti che la Consulta ci chiede con estrema sollecitudine”, ha replicato Monica Cirinnà, “Rispetto le posizioni della Cei, ma io mi occupo di leggi e diritti, semmai di reati. Non di peccati. Ognuno sul tema delle unioni civili ha le sue posizioni. E la Cei parla, esprimendo opinioni che rispetto, per i vescovi italiani. Ma io rispondo al mio mandato di parlamentare e di risposte a quei cittadini che chiedono di avere dei diritti. Come sempre quando sono in discussione dei diritti, la legge di cui sono relatrice interroga le coscienze di tutti e sarà sottoposta a un voto libero, di coscienza, del Parlamento. C’è chi in commissione ha chiesto di fermare la legge. Ma la maggioranza dei senatori membri della commissione Giustizia ha deciso di votare, perchè sul tema per troppi anni in Italia si è deciso di non decidere”.
Accade così che il nefasto mercato umano della Fiv affianca, al commercio di ovuli, quello di uteri di donne interessate a portare avanti una gravidanza per conto terzi, senza però coinvolgere il proprio patrimonio genetico. Negli anni Ottanta, negli Usa, affittare un utero costa circa 45 mila euro, di cui 10 mila per la surrogata, 15 mila per il mediatore, e il resto per spese legali varie. Nascono così agenzie di vario tipo, tra cui la Growing Generation che si specializza nel fornire servizio a coppie omosessuali. In poco tempo il fenomeno della locazione d’utero negli Usa cresce esponenzialmente: dai 100 casi del 1981 ai 1210 del Duemila. Ad affittare il proprio utero sono di solito donne povere, di colore, pronte a portare in grembo figli di single, etero, o gay, bianchi.
Una vera e propria forma di schiavitù, insomma, che può svilupparsi in nome del “libero mercato” e della visione secondo cui la famiglia non sarebbe, come è, una “società naturale”, ma solo una costruzione culturale variabile nel tempo e nello spazio. Certa cultura femminista, tutta protesa a dividere uomo e donna, così come la teoria del gender, che persegue lo stesso scopo, forniscono così il supporto ideologico ad un vergognoso e inaudito sfruttamento. Battersi per il matrimonio gay, infatti, implica necessariamente scindere la procreazione dal rapporto uomo e donna, e nello stesso tempo difendere il ricorso di una coppia di maschi, in nome del loro presunto “diritto” ad avere figli, alla locazione di utero (almeno sino a quando le leggi non cambieranno la natura umana, fornendo agli uomini ovuli ed utero).
Mentre in alcuni stati Usa, come la California, il business mette radici legali, in altri paesi, come l’India, si diffonde un turismo procreativo a danni delle donne indigene, che divengono serbatoi, in appositi allevamenti, per ricchi occidentali.
La maternità surrogata permette di diventare genitore anche a chi non riesce a portare a termine una gravidanza, grazie ad una donna che accetta di affrontare gestazione e parto. La pratica è legale in diversi paesi del mondo (non in Italia) ma in India sembra aver raggiunto proporzioni gigantesche: il mercato dell’utero in affitto è valutato due miliardi di dollari. Nel reportage le foto dell’Akanksha Infertility Clinic, nella città di Anand, cittadina del Gujarat in India. Il centro è uno dei principali del Paese e i costi sono molto inferiori a quelli richiesti da cliniche statunitensi o inglesi. Le donne che accettano di affittare il proprio utero versano spesso in condizioni di indigenza e utilizzano il denaro guadagnato per l’acquisto di una casa o per il pagamento dell’educazione dei propri figli. Accanto alla clinica esiste una casa dove le donne possono vivere i mesi della gravidanza in assoluta riservatezza e con un’adeguata assistenza medica (reuters).
Questo video ci mostra come la Cirinnà cerchi in tutti i modi di omettere aspetti che riguardano un mercato vergognoso quello degli uteri in affitto, che riguarda donne costrette a svendere il loro corpo per necessità, soprattutto nei paesi più poveri come l’India.