La frase choc della vedova del commissario di polizia ucciso, racchiude in sé qualcosa di ancor più sorprendente. Gemma Capra Calabresi ha dato alle stampe il suo libro autobiografico La crepa e la luce: una lezione di vita e di fede.
Con un messaggio straordinario per chi ha fatto soffrire lei e la sua famiglia.
L’anniversario
Il prossimo 17 maggio ricorrerà il 50° anniversario dell’assassinio di Luigi Calabresi. La storia del commissario di polizia, vittima del terrorismo di estrema sinistra è ancora viva nella memoria degli italiani. Ai tempi della tragedia, l’opinione pubblica rimase profondamente spaccata, essendo il Paese immerso in un’epoca spiccatamente ideologica.
In questo mezzo secolo, tuttavia, anno dopo anno, le testimonianze della famiglia Calabresi hanno gettato una luce diversa sull’intera vicenda. Il risvolto umano, affettivo e anche spirituale ha in qualche modo conferito un significato più profondo alla parabola esistenziale del commissario Calabresi, di cui è in corso il processo di beatificazione.
Al punto che oggi, la sua non è più una pura e semplice vicenda giudiziaria o politica. Non si può scindere il funzionario di polizia dall’uomo e anche la presenza pubblica della vedova Calabresi o dei figli si pongono come un vero “segno di contraddizione” nel senso evangelico del termine.
Mario Calabresi, giornalista e scrittore, già direttore di Repubblica (2016-2019), appena due anni al momento dell’assassinio del padre, ha rievocato la sua storia familiare nel libro Spingendo la notte più in là (Mondadori, 2007).
Si perdona con il cuore, non con la mente
Più di recente, a scrivere sul commissario Calabresi è stata la vedova, Gemma Capra, che ha recentemente dato alle stampe un ulteriore volume autobiografico, dal titolo La crepa e la luce (Mondadori). L’introduzione è affidata a Mario Calabresi, che spiega come il libro della madre (così come il suo) ha come fulcro “un’idea di superamento della rabbia e del rancore a cui lei ha dedicato due terzi della sua vita”. Ne è così nato uno scritto, “sorprendente anche per me, che ci mostra come l’odio e il desiderio di vendetta si possano trasformare in fiducia negli altri e in amore”, aggiunge Mario Calabresi.
“Al perdono si arriva attraverso un percorso lungo. Io ho sempre detto di essere un cammino, ma per anni non ci ho pensato mi pareva di tradirlo solo a pensarci”, ha confidato la signora Calabresi, intervistata il 6 marzo a Domenica In da Mara Venier.
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A ridosso del delitto, la vedova aveva addirittura desiderato di uccidere gli assassini del marito: un moto dell’animo da cui ha imparato a prendere le distanze. “Oggi ho voluto raccontarlo per fare capire come ce l’ho fatta: ho scoperto che il perdono non lo dai con raziocinio, ma solo dal cuore”.
Un matrimonio nel segno del destino
L’autrice rievoca tutta la sua vita a fianco di Luigi Calabresi, da cui ha avuto tre figli (Mario, Paolo e Luigi). In seguito, Gemma Capra ha sposato in seconde nozze l’artista Tonino Milite, scomparso nel 2015.
Luigi e Gemma si conobbero, lui trentenne, lei ventunenne, durante un veglione nel Capodanno 1968. Una festa a casa di un amico comune, a cui inizialmente Gemma non voleva andare. È colpo di fulmine.
Dopo un anno e quattro mesi sono sposati. Nove mesi dopo il primo figlio è già nato. Il secondo nasce dopo un anno, il terzo alla fine del 1972, sei mesi dopo la morte del padre. Una rapidità, in cui Gemma Capra Calabresi ha sempre visto qualcosa di provvidenziale. “Mario, Paolo, Luigi dovevano esserci, dovevano avere una vita e percorrerla”, ha raccontato durante la recente presentazione del libro presso il Centro Culturale Milano.
L’assassinio del commissario Calabresi avviene il 17 maggio 1972, una mattinata come tante altre. Unico elemento di novità: la coppia attende l’arrivo della nuova colf che quel giorno inizierà a fare le pulizie in casa. Prima uscire, il commissario cambia idea sulla sua cravatta: dopo averne indossata una rosa di seta, opta per una bianca di lana. Chiede alla moglie come gli sta e lei: “Benissimo, ma ti stava bene anche l’altra”. Lui risponde con una frase sibillina: “Sì, ma questa è il simbolo della mia purezza”.
Nella consapevolezza della sua innocenza, dopo più di due anni di calunnie e di campagna stampa ostile, Calabresi, a soli 34 anni, affronta a viso aperto l’idea di poter morire. Così avviene pochi minuti dopo davanti alla sua abitazione milanese, in via Cherubini.
Al suo arrivo, la donna delle pulizie ignora completamente l’identità di Luigi Calabresi e non sa di trovarsi in casa di un funzionario di polizia (Calabresi aveva chiesto alla moglie di mantenere la massima discrezione), eppure, costretta a scusarsi del ritardo, dice: “Sa, signora, hanno sparato a un commissario e la strada era bloccata…”.
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Negli interminabili minuti e ore successivi, la signora Calabresi inizialmente si culla nell’illusione che si tratti di una pura coincidenza e che il marito è al sicuro, poi, però, gli eventi la travolgono.
Quando, una volta in ospedale, Gemma apprende finalmente la notizia della morte, accade qualcosa di incredibile. Prima una “sensazione di vuoto totale, come se niente intorno a me avesse più significato”. Poi una frase rivolta al parroco don Sandro, giunto per farle forza: “Diciamo un’Ave Maria per la famiglia dell’assassino, che avrà un dolore più grande del nostro”. Parole che “non erano farina del mio sacco”, confida Gemma Capra, che, aggiunge: “Ho sentito la presenza di Dio, quel giorno ho ricevuto il dono della fede… una sensazione di pace assurda, un’enorme forza”.
Le domande dei bambini possono cambiare una vita
È l’inizio di un cammino spirituale e di perdono, tutt’altro che lineare e scontato. Come accennato, la vedova Calabresi ha sentito per anni il desiderio inconfessato di uccidere gli assassini del marito e lo ha svelato per la prima volta proprio nel libro appena uscito.
A scuoterla, alcuni anni dopo la tragedia, la domanda di un alunno (nel frattempo Gemma Capra aveva ottenuto l’abilitazione all’insegnamento della religione alle elementari): “Maestra, perché quando uno muore, tutti dicono era buono?”.
Una scossa, un’illuminazione per la vedova Calabresi che, da allora, iniziò a pensare: “Anche gli assassini di Gigi non sono solo assassini, saranno anche buoni padri, buoni mariti… che diritto ho io a relegarli tutta la vita all’atto peggior che hanno commesso? Da allora non li chiamo più ‘assassini’ ma ‘responsabili della morte di mio marito’. Prego per loro perché abbiano la pace nel cuore”.
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