La recente assoluzione di Mina Welby e Marco Cappato, per l’aiuto al suicidio di Davide Trentini apre le porte alla legalizzazione dell’eutanasia.
Una pagina del tutto amara, quella che si è letta recentemente in merito all’assoluzione di Mina Welby e Marco Cappato, che aiutarono Davide Trentini a morire in Svizzera, nel 2017. Secondo la Corte, questo aiuto alla negazione della vita, come riporta La Stampa, “non costituisce reato”. Per la legge, non si tratta di aiuto al suicidio. Ma di cosa si tratta, ancora non si sà, è un qualcosa che in Italia non ha ancora un nome legale. Davide aveva 53 anni ed era malato di sclerosi multipla. Aveva chiesto per l’appunto aiuto, dal momento che la malattia era divenuta un calvario. Mina Welby lo aveva accompagnato in ambulanza fino in Svizzera. Marco Cappato aveva invece raccolto i fondi necessari per l’aiuto al suicidio.
Welby e Cappato: le differenze col caso Antoniani
Lo stesso Cappato era già stato al centro di diverse discussioni legate a una tematica quanto meno reciproca. Così come Fabio Antoniani, conosciuto anche come Dj Fabo, anche Trentini aveva chiesto il loro aiuto. La condizione in cui versava Trentini, però, era differente da quella di Antoniani. Quest’ultimo, infatti, dipendeva da macchinari per rimanere in vita. Trentini invece no. Di questa differenza, come ricorda Il Fatto Quotidiano, i due imputati ne erano ben consapevoli. Lla Corte Costituzionale aveva negato l’esistenza di un “diritto al suicidio”, con annesso aiuto, limitandosi all’applicazione del “diritto di rifiutare le terapie”. Per l’appunto, la Corte manifestava l’intenzione di “regolare un caso particolare per far morire rapidamente quelle persone che, rifiutando il sostegno vitale, sarebbero ugualmente”.
La scelta di Trentini
Ora, è vero che Trentini era “medicalmente assistito”, ma non era attaccato a una macchina per vivere. Trentini riceveva dalla ASL dei sostegni terapici. La sua volontà di morire, di cui aveva parlato espressamente con i due imputati, non era legata allo spegnimento di alcun macchinario. Una riflessione, qui, è d’obbligo. Non bisogna, in tal senso, dimenticare che chi soffre fisicamente, porta con sé, senza dubbio, una sofferenza anche psicologica, che lo porta a pensare che non vi sia via d’uscita. Ma questo, ad ogni modo, non comporta il diritto ad essere aiutati a privarsi della vita.
Il rischio è la perdita di speranza
La triste pagina dell’assoluzione di Welby e Cappato porta con sé una serie di rischi, legati alla legalizzazione dell’aiuto al suicidio. Innanzitutto, come la fonte ricorda, il primo rischio è che il suicidio avvenga “senza alcun controllo sull’effettiva sussistenza della loro capacità di autodeterminarsi”. Ma poi c’è un rischio, molto importante, legato alla società. Il rischio è proprio che quest’ultima, di fronte alla sofferenza, non riuscirà, man mano, ad offrire soluzioni e ad indicare una via d’uscita.
F.A.